Parlare della storia del Jamaica è parlare della storia di Brera, di Milano, dell’arte italiana dell’ultimo secolo.

Qui è nato il quartiere come lo conosciamo oggi, così vivo ed eterogeneo grazie agli artisti e all’interesse che si era creato attorno a loro. Inaugurato nel giugno 1911 e dotato di telefono e macchina per il caffè espresso, il locale fu subito frequentato dai personaggi della Milano del tempo. Tra di loro il direttore del “Popolo d’Italia” Benito Mussolini, che passava ogni mattino a bersi il cappuccino della signora Lina e a correggere gli articoli del suo giornale. Sparì una mattina del ’22, improvvisamente e senza pagare il conto, inaugurando così la lista dei debitori illustri.E’ al musicologo Giulio Confalonieri che si deve il nome attuale. La leggenda vuole che lo studioso, appassionato del Cherubini e dello scopone, ma anche dei palmizi e dei panorami tropicali, lo avesse evocato per antifrasi con le grigie giornate milanesi. Il Confalonieri si sarebbe ispirato a un film inglese del ’39, “Jamaica Inn”, o meglio, “La taverna della Jamaica”, interpretato da sir Charles Laughton e Maureen o’Hara, per la regia di Alfred Hitchcock. Grazie anche al successo del film, uscito qui da noi alla fine della guerra, quella del “Jamaica” divenne una delle insegne più famose d’Italia. Nel locale si creò un clima irripetibile che contribuì a fare di Milano una capitale della cultura. Quella stagione non sarebbe più ritornata, e non è facile precisarne le ragioni. La vicinanza all’Accademia aveva sempre attirato modelle e studenti, ma gli artisti arrivarono in massa a partire dal ’48, quando il gestore Elio Mainini riuscì ad organizzare una mostra d’arte intitolata “Premio Post-Guernica”, a cui aderirono alcuni artisti del “Consorzio di cervelli”: Gianni Dova, Roberto Crippa e Cesare Peverelli, ed altri come Bruno Cassinari, Samboné, Ernesto Treccani ed Ennio Borlotti. 

Tra i giudici c’erano Raffaelino De Grada ed Alessandro Cruciani. La mostra, nonostante i quadri così arditi suscitassero meraviglia ed anche qualche protesta da parte dei tradizionalisti, ebbe la funzione di concentrare al Jamaica molte delle personalità della vita intellettuale milanese e nazionale. Il Jamaica divenne il “Caffè degli artisti” di Milano, quando i caffè erano davvero i caffè e ci si andava per scambiare idee, per litigare sul sesso degli angeli, per distrarsi con gli amici, con le carte, con l’aiuto di un bicchiere.

Questi artisti, spesso coetanei del Mainini, erano diversissimi fra loro: non c’era un comune denominatore fra il giovane Piero Manzoni che inscatolava le sue feci e il già maturo Lucio Fontana che abbandonava la pittura figurativa per rasoiare le tele nel nome dello spazialismo. Non appartenevano ancora a una scuola o a una corrente letteraria gli scrittori Germano Lombardi e Nanni Balestrini, portainsegne del Gruppo ’63, i poeti Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo, il narratore Luciano Bianciardi che, allora impiegato, trovava al Jamaica i conforti alcolici e l’amicizia per sopportare il peso dell’esistenza e scrivere nel frattempo “La vita agra”. Il trio di avanguardisti del “Consorzio di cervelli” non aveva punti d’unione con i giovanissimi Valerio Adami e Antonio Recalcati che con geometrie neosurrealistiche optavano per un recupero del figurativismo.
Allora erano alla fame. Oggi molti di loro sono conosciuti e riconosciuti in tutto il mondo. Nacque in quegli anni un metodo di scambio artistico che non aveva (e non avrà) eguali al mondo: quadri in cambio di cibo, macchine fotografiche prese a prestito, opere d’arte perse giocando a scopa, vino segnato a libretto (conti destinati, il più delle volte, a non venire mai saldati) da “Mamma Lina”. Curiosa mecenate questa donna d’altri tempi, che faceva credito a fondo perduto e rifiutava i quadri come pagamento per non sfruttare il momento di bisogno degli artisti. Ma la vera mente era suo figlio Elio Mainini, che selezionava i vini e, documentandosi sui pochi giornali americani che arrivavano in Italia, proponeva cocktail sempre nuovi, aggiornandoli secondo le esigenze e i capricci dei suoi clienti. Fu lui che, raccogliendo i suggerimenti dei suoi amici Arrigo Cipriani e Gualtiero Marchesi, fece scoprire ai milanesi i carpacci e propose loro le tartine più raffinate accompagnate dai vini più ricercati. Dalla sua curiosità mai doma e dal suo entusiasmo, nacquero gli ormai storici tramezzini, le Caesar Salad importate dall’America e la prima scuola di sommelier d’Italia, fondata in collaborazione con Gualtiero Marchesi.

La leggenda del Jamaica si perfezionò quando, nelle sue sale odorose di fumo e frequentate da ragazze scollate e cipigli d’artista, si fecero largo alcuni giovanotti che ci tenevano ad essere considerati degli intellettuali. Erano dei fotoreporter che si sarebbero poi rivelati i più bravi della loro generazione e, come tutti i fotografi, aspiravano ad essere considerati degli artisti alla stessa stregua di pittori e scultori. 

Quei giovanotti erano Ugo Mulas, Mario Dondero, Alfa Castaldi. Guido Aristarco, grande decano della critica cinematografica italiana, fondò in quegli anni la rivista “Cinema nuovo” inserendovi il “fotodocumentario giornalistico”, genere di reportage che ritraeva aspetti (neo)realisti della vita italiana. Così il Jamaica con i suoi pittori, le sue muse allettanti ma un po’ sbrindellate, la sua bohème ambrosiana divenne, con il crisma dei brillanti servizi fotografici di Mulas, Dondero & C. un punto nodale della vita culturale italiana. 

La pittura nucleare e quella spaziale, insomma l’avanguardia “made in Brera”, iniziarono a essere ben quotate da collezionisti, critici e gallerie. Alla fine degli anni ’70 arriva anche il riconoscimento della città grazie a una benemerenza ufficiale del sindaco a Mamma Lina: per il suo Jamaica, e soprattutto per aver creato quell’ambiente bohemièn che ha portato Milano ad essere una capitale dell’arte moderna riconosciuta ed ammirata a livello mondiale. In quegli anni anche il portabandiera della “Beat generation”, il poeta Allen Ginsberg, vi trascorreva interi pomeriggi.
Qualcuno è invecchiato fra quelle piastrelle. Qualcuno se n’è andato per sempre, come Pietro Manzoni, prima di assistere al proprio trionfo nei musei e nelle collezioni private. Quelli che hanno sfondato ritornano, quando passano per Milano, a cercare il fascino della gioventù e della memoria, il profumo del tempo che fu. Altri hanno abbandonato le aspirazioni artistiche e sono diventati presidenti di consigli d’amministrazione o professionisti strapagati, ma non per questo hanno perso la voglia di scherzare, di discutere, a volte anche di litigare, ai tavoli del Jamaica, naturalmente. Ai giorni nostri sono il mondo della moda e quello degli affari che caratterizzano di più il locale; rimangono intatti il fascino, i ricordi, le leggende, le storie e la storia di Milano. Anche se adesso Elio Mainini non c’è più, la tradizione rimane, portata avanti con amore immutato dalla moglie Vittoria, dalla figlia Micaela, dalla nipote Carlina.

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